Avevo pensato di cominciare la mia bio per presentarmi, nel modo classico. “Mi chiamo Sergio ho 46 anni, sono un creativo, un fotografo … ecc. ecc.”. Ma non è mia abitudine presentarmi agli altri in modo “curriculare”. Non è “ciò che faccio” che mi identifica ma è “chi sono”. E credo che questo non valga solo per me, ma per ciascuno di noi, anche per te che mi stai leggendo. Eviterò quindi di annoiarti con epici e logorroici racconti esistenziali sulla mia vita passata e sulle mie esperienze. Per conoscermi è sufficiente che tu spenda due minuti del tuo tempo focalizzando la tua attenzione su queste due pensieri. Due citazioni che ho pensato di prendere in prestito da due persone, due artisti a me molto cari. Due concetti che ti aiuteranno a capire, anzi, ad accogliere chi sono:

“non rivendico nessuna appartenenza, tranne quella al mondo degli esseri viventi col diritto di affondare le radici, sogno un universo dove ogni differenza sia la base per poter essere amici”

(l’albero – Lorenzo Jovanotti)

“Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato”

(Ansel Adams)

Nell’invitarti a leggere Lorenzo e Ansel, avrai notato che ho usato, anzi, abusato della parola “due” un po’ troppo. Volutamente. Perché è il due, gli insiemi, la pluralità è alla base della mia esperienza di vita e del mio lavoro. Non siamo fatti per vivere da soli con noi stessi. Siamo fatti per essere un insieme. Siamo fatti per le relazioni. La mia unicità, la mia “singolarità”, serve a ben poco se non è messa in relazione con la tua. Ed io ho capito, a 46 anni, che, almeno per me, non esistono vita privata e vita professionale. Esiste una unica vita dove le due si fondono, si contaminano e rendono possibile l’impossibile: mettere in gioco noi stessi, la nostra parte più vera, più intima e profonda in relazione con il resto del genere umano. E quando qualcuno guardandomi fotografare non capirà se io stia lavorando o semplicemente vivendo, significherà che sono sulla strada giusta.

Sono questi semplici concetti che mi hanno spinto a dare vita a questo progetto: raccontare, attraverso il linguaggio e l’arte della fotografia, che non esistono persone “diverse” ma semplicemente esseri umani che mettono sul piatto le proprie “differenze” affinchè la propria vita sia in relazione con la tua, con la mia, con la nostra, con quella di tutti e creare così una società più coesa, inclusiva e solidale. Dove i diritti di ogni individuo non siano esclusivamente ad appannaggio di una categoria di persona, ma siano pane quotidiano di tutti. Affrontare temi come quello relativo alle persone con disabilità, in particolare l’essere donna nel 2020 e vivere da donna la propria condizione di disabilità non è né facile né tantomeno scontato. Devo dire “paradossalmente” di essere stato avvantaggiato da un incidente d’auto avuto 15 anni fa e che mi ha costretto su una seria a rotelle per diversi mesi per poi affrontare un percorso riabilitativo, che mi consentisse di tornare a camminare, lungo quasi un anno. Questa esperienza mi ha fatto toccare con mano, seppur in un lasso di tempo breve e comunque con la prospettiva certa che sarei tornato a camminare, che cosa vuol dire vivere seduto su una sedia a rotelle, guardare la vita da un punto di vista, da un’altezza, diversi. Conoscerne le difficoltà, le esigenze, le priorità. Vivere in prima persona, seppur ripeto per un lasso di tempo ben delimitato, l’esperienza della disabilità, mi ha permesso di maturare una maggiore sensibilità ed una attenzione ai bisogni degli altri, sempre più consapevole, oggi nel 2020, che i bisogni degli altri sono i miei bisogni, sono una mia responsabilità. Quando sempre più spesso sentiamo quasi allo sfinimento l’affermazione “lo stato deve rispondere e fare qualcosa per questi bisogni”, non siamo forse io e te “lo stato?”. È con questo progetto, diverrai diamante, che voglio provare a rimettere al centro del dibattito, che viviamo in una comunità di persone, che dobbiamo sentirci tutti corresponsabili gli uni verso i bisogni degli altri. Dove nessuno è “diverso” e dove le nostre personali “differenze” siano davvero la base per poter costruire una società migliore. Il mio lavoro di fotografo e creativo vuole provare con questo progetto ad aprire una breccia nel cuore delle persone, anche di quelle che dalla vita sentono di aver preso solo calci nel sedere. Questa opera fotografica vuole raggiungere ciascuna di loro e dire con certezza che le ferite (citando don Tonino Bello) possono essere trasformate in feritoie. Un luogo in cui passa la luce. La luce di una comunità solidale e coesa dove ciascun individuo conta.